Durante le scorse settimane, mi sono ritrovata davanti ad alcune direzioni e decisioni da prendere, certe minuscole, altre un po’ più grandi e ho proprio riflettuto su quanto ogni possibilità che ci si presenta possa attivare, dentro di noi, tanto il desiderio quanto la paura.
“L’uomo è condannato a essere libero”, scriveva Sartre, e questa libertà ci angoscia un sacco, perché ci pone a confronto con la responsabilità delle scelte che facciamo. Ma è proprio in quella responsabilità che risiede il potenziale per la trasformazione: fintanto che continueremo ad attribuirla a qualcuno o a qualcosa fuori di noi, non ci sarà possibile fare alcun passaggio.
Dal mondo esterno
“C’è una sensazione di conosciuto nel non provare”
ha scritto tempo fa L. Olivera.
Per questo in terapia insisto tanto sul festeggiare i tentativi e li festeggio pure con me stessa quando ne faccio qualcuno. Perché a volte, dopo che abbiamo provato, ci accorgiamo che l’aspetto trasformativo non stava tanto nel contenuto, quanto nel processo, che detto altrimenti significa che il punto non è il risultato (a volte esso ci delude assai), ma il fatto di esserci scoperti capaci di provare.
Di esserci scoperti più coraggiosi di quanto pensassimo.
Ciò va a costruire un pezzetto della nostra possibilità di narrarci a noi stessi e al mondo in un modo nuovo rispetto a quel che ci siamo sempre raccontati o che ci ha raccontato chi ci stava accanto.
Tante persone soffrono perché si sentono imprigionate nella loro storia o nei loro sintomi. Sia il passato che i sintomi possono infatti generare una drammatica carenza di libertà. Pensiamo all’ansia, che ce lo mostra in modo molto concreto: quando è tanta, l’unica maniera per sopravvivere diventa l’evitamento. I posti, le situazioni, i viaggi, tutto quello che rischia di mandarci in allarme viene piano piano chiuso fuori, l’orizzonte si stringe e ci ritroviamo in un paesaggio molto più piccolo. A volte il territorio della libertà arriva a coincidere con la sola superficie della propria casa.
Qualcosa di simile accade anche con le relazioni: quanto più ci portiamo dentro un vissuto di sofferenza legato alla nostra storia, tanto più i nostri bottoni saranno sensibili e si attiveranno obbligandoci a leggere le cose e a reagire andando in una sola direzione.
“Mi ha detto che non vuole chiarire subito, quindi vuol dire che non le/gli importa”, “Vorrei scrivere a quella persona, ma aspetto che lo faccia lei. Metti che non mi risponde o che la disturbo”.
Eccoli lì: il bottone dell’abbandono e il bottone del rifiuto e del bisogno di controllo si sono accesi e ci portano a rimanere lungo i sentieri noti, con tutte le protezioni alzate.
Dal mondo interno
Quelli che io chiamo “bottoni”, per Jung (che spero mi perdonerà per i termini della spiegazione che segue) sono “complessi a tonalità affettiva”. Ora ve li faccio vedere.
Immaginate una sfera: questa è la psiche. Ora, dentro alla sfera, immaginate tante palline di vari colori e di varie dimensioni che galleggiano. Quelli sono i complessi. Dentro ciascuna pallina ci sono immagini ed emozioni più o meno intense collegate a un tema archetipico: il materno, il paterno, la fanciullezza, la vecchiaia, l’Io, ecc.
Più una pallina è carica emotivamente (in quanto legata a esperienze intense positive o negative fatte nella vita), più ci sarà la probabilità che si attivi e prenda, diciamo, il timone della psiche in barba all’Io, da cui risulta scollegata.
Lì è quando noi perdiamo il controllo o siamo sopraffatti dall’intensità delle nostre emozioni o ancora rimaniamo bloccati dalla paura, come se i ricordi di pancia di quel che abbiamo passato si mettessero tutti tra noi e l’altra persona, tra noi e la scelta che non riusciamo a fare. Ovviamente di rado siamo consapevoli di tutto questo, semplicemente ci troviamo a viverlo ancora e ancora.
Più impariamo a riconoscere che i complessi si stanno attivando, più ne spacchettiamo le immagini e la storia, meno saremo soggetti a questi momenti di sopraffazione. Certo, avremo sempre delle palline più reattive di altre, ma potremo almeno metterle in comunicazione con l’Io e aprire un dialogo ascoltando le motivazioni delle rispettive parti in gioco. E col tempo costruire dei sentieri nuovi.
Dalla casetta sul fiume
Ma quindi, mi chiedo passeggiando immersa nei miei pensieri e contando i nuovi anatroccoli nati questo mese che mi sfilano nell’acqua con le loro madri: siamo liberi oppure no, se, per citare Freud, neanche l’Io è padrone in casa propria?
Questo ci porta dritti dritti a quello che i terapeuti esistenziali definiscono come una delle “polarità paradossali” del nostro essere umani, cioè che noi viviamo sempre in una tensione tra la libertà e il limite, laddove il limite è costituito dalla nostra biologia (il limite ultimo è ovviamente la morte), dalla nostra storia, dal nostro ambiente, dal contesto culturale, sociale e storico in cui viviamo.
Pensare di essere del tutto liberi, come certe narrazioni molto dannose del “se vuoi puoi” cercano di venderci, favorisce uno scivolamento nell’onnipotenza, tanto quanto pensare di essere del tutto imprigionati dalle circostanze esterne rappresenta una rischiosa forma di delega circa la propria vita.
A questo proposito, mi è tornato in mente un estratto di una seduta di Yalom, in cui parlava dell’idea del dieci per cento:
«Ci ho sperato per un po'» disse (la paziente) «ma come vede mi ritrovo intrappolata come sempre».
«Ho l'impressione» le risposi «che lei sia colei che è intrappolata, ma anche colei che intrappola. Capisco come queste circostanze possano trattenerla dal cambiare vita, ma mi chiedo se spieghino davvero tutto. Diciamo che queste ragioni concrete e al di fuori del suo controllo (i figli, l'età, i soldi, i colleghi sgradevoli) possano rappresentare il novanta per cento della sua inerzia. Tuttavia mi chiedo: non c'è forse una parte che appartiene a lei, anche se si tratta solo del dieci per cento?»
Annuì.
«Bene, è proprio a quel dieci per cento a cui qui, nella nostra terapia, vogliamo dare un'occhiata, perché quella è la parte, l'unica parte, che lei può cambiare».
Dalla mia scrivania
Tutta questa faccenda della libertà, che secondo me è in primis la libertà di essere chi siamo, mi porta al mio studio e ai miei studi, ultimamente orientati in modo particolare alle questioni legate alla diversità che può caratterizzare ciascuno di noi in vari modi.
Per questo e per vari altri motivi, mi sono sempre più dedicata ad approfondire dei temi specifici, tra cui quello della plusdotazione.
Le persone plusdotate (o gifted) presentano delle particolari caratteristiche sia a livello sensoriale, sia cognitivo, sia emotivo. Per quanto il costrutto sia inteso in modi differenti, per definirle si fa riferimento, in termini di quoziente intellettivo, a un punteggio pari o superiore a 130. Ci sono poi altri aspetti da valutare, che vanno oltre il mero numero.
Non conoscendo l’argomento, si potrebbe erroneamente credere che questo tipo di caratteristica offra solo dei vantaggi, ma le cose sono molto più complesse di così.
Discostarsi dalla norma può infatti impattare sul modo di percepire sé stessi e su quello di stare con gli altri, anche perché la questione non è tanto quella di avere un’intelligenza “maggiore”, quanto un’intelligenza che funziona in modo differente. Gli studi ci dicono che, per chi ha una tale caratteristica di funzionamento, imparare presto a conoscerla aiuta a stare meglio, a sentirsi più sicuri nella propria pelle una volta adulti. Scoprirlo da grandi, permette di rileggere tante cose della propria vita in una cornice nuova. A volte lo si fa insieme all’interno di un percorso.
Dal mondo delle storie
In questo periodo sto leggendo meno narrativa rispetto al solito, ma “L’unità” mi ha agganciata con un filo molto robusto. Tra le altre cose credo che ciò sia dovuto alla capacità di questo libro di raccontare certi modi in cui si muove la mente, di mettere in discussione il mondo in cui viviamo, di portare a galla e amplificare gli impliciti culturali, di perturbare. Già, perché nella società in cui si trova l’unità, chi non si è sposato, non ha avuto figli o non ha compiuto una carriera di rilievo viene a un certo punto portato via, per il “bene collettivo” e si ritrova in un altrove dove accadono cose che potrete scoprire leggendo. Vi anticipo che camminare tra queste pagine può attivare maree nelle pance e molte riflessioni.
Ora è giunto il momento di salutarci, noi ci ritroveremo a Luglio con la prossima lettera.
Un abbraccio,
è bello averti qui.
Daniela
Io penso che la sensazione di trasformarsi è correlata al tentativo di valorizzarla, attraverso un educazione su di essa e grazie alla curiosità, da un lato; dall'altro nell'avere un "circondariato" familiare, sociale che sposi ed abbracci questa trasformazione.
Questo è secondo me comune a chi l'arte non la consuma da spettatore ma la vive da artista: è facile ricardere nel gioco perpetuo dello standardismo perché pienamente accettato e catalogato ed é arduo rappresentare ciò che è il proprio essere, proprio perchè si vive senza kanones (regole, geometrie o parametri predefiniti).
E' per questo che nella storia dell'arte il dissenso tecnico o rappresentativo era qualcosa di allarmante, proprio dava capovolta allo status-quo delle cose.
La libertà in se per sé é mental-spirituale: sapere di aprire gli occhi all'interno di un vaso di carne e ossa (che poi sono cellule, molecole, positroni e particelle e chissà quale altra materia) dove il mondo fisico che ti accoglie è subdolo ad un gioco di regole dogmatiche di altri esseri uguali spiaccicati a te, che si credono migliori o pre-scelti - tutto questo sicuramente non dà benessere né al tuo conscio e né tantomeno allena il tuo subsconscio nel creare con un legame valorizzato e positivo.
E' come indossare vestiti invernali d'estate, preferendo di continuare a indossarli pur sapendo che questo ci fa stare incomodi e male.
Sto lavorando sulla chiarezza ma posso solo che ringraziarti per lo spunto riflessivo che ogni volta porti nei tavoli delle nostre case psichiche.
Lettera magnifica, l’ho letta celermente, ma l’ho trovata veramente razionale ed intima, ossimoro mica facile da ottenere quando si pensa o si scrive. La rileggerò con maggiore calma il prima possibile.